La luce è fuori.

Il pavimento è freddo. Mi riempe di brividi. Mi smuove. La luce è fuori. Tutto è buio. Il nero mi consola. I pacchetti finiti annebbiano la mia vista. Ma non piango. Ci vuole costanza per potere piangere. Ci vuole forza. Verità. Non c’è niente di vero nel freddo di questo pavimento. Noia e dolori finti investono la mia anima. Mediocre anch’essa come tutto il resto. Il suono del telefono mi risveglia dal torpore. E’ mia madre. Ti ho chiamata per dirti che ti voglio bene. Tanto. Il suo amore manifesto mi uccide. Mi uccide come uccidono i sensi di colpa. Le cose non meritate.

Finestra

Muovo le dita, solo l’indice e il medio, tamburello un po’, senti come cambia il suono. Ogni cosa ha un suo suono, bisogna solo farglielo emettere. Preferisco il suono della plastica, è più leggero, quello del legno è grave ma più intenso, se ci penso è così che conosco il mondo tramite il suono che le mie dita producono su di lui. Sono un artista e suono il mondo. E’ rasserenante sapere che tutti i legni e le plastiche del mondo faranno più o meno lo stesso rumore.

 

E’ buio, la mia finestra è chiusa forse l’aria non è delle più fresche qui da me, dentro camera mia, tra un po’ arriverà mia madre, inizierà a parlarmi, mi coccolerà, adoro essere coccolato, farò finta di essere scocciato, chissà poi perché mi viene naturale fare finta di essere scocciato, mi dirà di aprire la finestra. Non c’è niente da vedere, ma lei non lo vuol capire. E inizierà a parlarmi delle bellezze del mondo. E’ così dolce mia madre.

_Luca…

_Mamma…

_Perché non apri un po’ la finestra? C’è un’aria insopportabile e poi tutto questo buio…

_Perché non c’è niente da vedere mamma. Sempre lo stesso cielo, lo stesso finto giardino sotto casa (come vi sarà venuto in mente di prendere casa qui poi…) la stessa gente, che dice le solite cose, le stesse idiozie, lo stesso finto divertimento, preferisco immaginare.

_Non mi sembra che questo tuo immaginare ti renda felice.

_Felice, felice… cosa vuol dire mamma questa parola? Tu che apri le finestre e guardi il mondo ti senti felice?

_No.

_Vedi…

_No Luca, che sia chiaro, io non sono felice perché tu non me lo fai essere. Tu hai scelto di distruggermi la vita.

_Sei aggressiva mamma.

_Non ce la faccio più. Tutti i giorni vengo qui a cercare di convincerti che c’è un mondo oltre a te, che ci sono delle cose da vedere, che le persone non sono tutte come le dipingi tu, che vivere non è poi così brutto, inutile e insensato. Tutti i giorni torno a casa dal lavoro con l’ansia: ti troverò? Non ti puoi chiudere solo nel tuo mondo, Santo Cielo, non ti annoi?

_Hai paura che mi suicidi mamma?

_Non dire quella parola?

_Hai paura sì o no?

_Sì Luca, sì. Maledettamente.

_Puoi stare serena mamma, si suicidano, ops fanno quella cosa lì, solo le persone che amano la vita, che dalla vita sono rimasti delusi, io non appartengo a questa categoria. Per poter togliersi la vita, bisogna vivere, se si è già morti non ci si può togliere la vita, no?

_E perché sei già morto tu? Come si fa a essere già morti a quindici anni?

_Chiedilo al tuo amato Dio, con me e con te è stato crudele.

_Lascia fare Dio, non è colpa di Dio, sei tu che vuoi avere questo ruolo. Pensi che ti si noti di più? E’ così che pensi di potere avere attenzioni?

_E che me ne faccio delle attenzioni?

_Dimmelo tu. Non ti annoi?

_Non mi interessano le attenzioni di nessuno mamma.

_E allora spiegami il tuo atteggiamento perché io davvero non lo capisco. Stare qui tutto il giorno a tamburellare sul tavolo… Non uscire mai, non vedere niente, non avere amici, non avere passioni, non fare niente, non parlare con nessuno, non sorridere, non mangiare, non muoversi da quella sedia. Spiegami, ti prego, che senso ha tutto questo.

_Nessuno. Ma che senso ha uscire, vedere gente, avere amici, avere passioni, fare qualcosa, sorridere, parlare, divertirsi, mangiare, sorridere, muoversi da questa sedia? Che senso ha andare a lavorare tutto il giorno? Che senso ha chiamare le amiche e dire loro “ah come mi preoccupa Luca”? Che senso ha andare a prendere la pizza il giovedì sera con della gente che detesti? Che senso ha fare finta che vada tutto bene e che l’unico problema sia Luca? Che senso ha stare accanto a un uomo che non ami? Spiegami, ti prego, qual è il senso della tua vita.

_Tu vuoi vedere le cose in questo modo, vediamole nel tuo modo.

_Te l’ha detto lo psicologo questo?

_Non fare l’indisponente. Non ha nessun senso nemmeno la mia così orribile vita, ma almeno io tento di rendermela gradevole. Non mi faccio schiacciare dalle mie paure, non sono fifona come te che sei spaventato da tutto. Perché è questo Luca, tu hai paura, hai solo paura. Hai paura di affrontare il mondo. Hai paura che il rumore del mondo sia diverso da quello che pensi tu. Hai paura di affrontarlo. Hai paura della gente, che ti scombussolino quel mondo di finte certezze che ti costruisci. La mia vita non ha senso certo, ma è meno comoda della tua. Mi annoio meno di te. Conosco la vita, non le cose che ho letto sui libri. Io vivo, senza vederci un senso, ma perché ci deve essere. Cerco di dare un senso, Luca, a questa mia esistenza.  Cerco di partecipare al senso. Non ci riesco? Pazienza. Ma io amo, incontro gente, ascolto il loro dolore, parlo del mio, mi confronto, scambio, faccio qualcosa. Non sto seduta ad autocommiserarmi.

_Mi piacciono le cose comode mamma.

_Codardo.

_Sì.

_Stronzo, sei uno stronzo. Ti prenderei a schiaffi.

_Scusami.

_No.

Apre la finestra e se ne va. L’aria fredda entra nella mia camera. E’ il suo dolce modo di farmi sentire il suo dolore e la sua freddezza. Amo il momento in cui apre la finestra stizzita, amo quel suo movimento, amo il suo coraggio e la fierezza con cui lo fa, è un gesto così coraggioso, essere invasi da tutte quelle particelle, da tutta quella luce, da tutto quel rumore e non avere paura. Io chiudo sempre gli occhi, ho paura, ha ragione lei, ho paura. Come fa a sopportare tutto? Perché io non ci riesco?

Spazi

Il rumore dei tacchi mi risveglia dai miei pensieri. Qualcuno mi investe con il suo corpo. Non mi chiede scusa. Alzo lo sguardo e lo guardo negli occhi. E’ triste. Sono triste anche io. Sono triste di una tristezza convenzionale, quella che si incontra in quasi tutti gli sguardi. Mi ferisce essere così uguale anche nella mia tristezza al resto. Avrei potuto scegliere di distinguermi almeno in questo.

Piove.

Non ho aperto l’ombrello mi serve per disegnare il tuo anonimo nome sul manto stradale. Potrei stare ore e ore sotto la pioggia e non bagnarmi affatto. Come una lapide di granito. Non penso che la morte possa essere qualcosa di diverso. Penso di essere morto o di stare morendo. Che differenza fa?

Disegno il tuo nome. Disegno solo il tuo nome con la punta del mio ombrello. Quanto è bello il tuo nome! E’ bello scriverti, ma la pioggia cancella tutto, la luna sorride del mio cercare di scriverti sulla strada, accanto ai miei piedi, renderti eterna, imprimerti sulla terra. Ride la luna. Che ne sa la luna?

Aspettarti è faticoso. In mezzo alla piazza sotto la pioggia. A Santa Croce, che fatica! Dondolo. So che arriverai in ritardo, tu arrivi sempre in ritardo, arrivi di corsa con le mani unite preghi il mio scontato perdono, arrivi con il tuo sorriso perfetto, mi prendi la mano e mi dai un bacio. Io sento il tuo arrivo dal rumore dei tuoi tacchi dal tuo passo leggero e alzo lo sguardo per prendermi tutto il tuo rituale. Non lo sai, ma con te sono sempre in anticipo, mi piace aspettarti qui in piazza Santa Croce.

Mi sembra che il tuo sorriso sia l’unica cosa al mondo che abbia un senso, so che non ha senso nemmeno il tuo sorriso e che la mia attesa è inutile e vana, e che sono qui ad aspettarti perché riempi i miei tempi vuoti. Solo perché riempi miei tempi vuoti. Ride di nuovo la luna. Che ne sa la luna di cosa vuol dire avere i tempi vuoti?

Non ti amo, come tutti gli altri non ti amo nemmeno io, avrei potuto distinguermi in questo, ma non ci sono riuscito e a pensarci bene non ho nemmeno voluto. Perché amarti? Perché amare?

Non ha senso niente, nemmeno la luna che ride della mia fatica, non hai senso nemmeno tu, e non hanno senso i nostri incontri e i nostri viaggi circolari. Pensavo che tu potessi dare un senso ai miei sterili viaggi circolari, che potessimo essere compagni di viaggio per sostenerci un po’. Ma il tuo corpo riempe solo i miei tempi vuoti. Cos’è poi l’amore? Perché dovrei amarti?

Ti sto aspettando perché aspettarti riempe il mio tempo vuoto. Sento la tua assenza perché riempe il mio tempo vuoto.

Arrivi, ma non è il tuo corpo. Sorridi, ma non sono i tuoi denti. Mi prendi la mano, ma non è la tua mano. Mi baci, ma non sono le tue labbra. Che differenza fa? Un altro corpo riempirà i miei tempi vuoti. Chi sei tu del resto?

Senno di Orlando

Povero il mio amore!
Fatto di canovacci,
Sogni dimenticati,
E promesse evase.

Mutila la mia anima
E scava
Con nevrotici gesti
Un prosciugato fiume di ricordi.

Povero il mio amore!
Capolavoro
Deriso, illuso e estinto.
Cacciato dal paradiso,
Reo di immensità.

Nudo e spietato
Esuma fangose pagine,
E ad ogni tua parola,
In ogni tuo tenero sorriso,
Dimentica e ricomincia
Furioso.

Povero il mio amore!
Sfiancante nei suoi
Corrosivi Silenzi,
Narcotizzante,
Non smette ancora
Di sperare.

Mi fanno male le mani.

Fisso la luce, la lampadina di camera mia, la mia luce, la fisso per molto tempo poi chiudo gli occhi e si mostrano a me nel buio splendidi disegni e volti quasi divini. C’è una dinamica precisa: chiudo gli occhi e parto in un non-fatto viaggio. All’inizio vedo un punto nero piccolissimo al centro circondato da una luce potentissima, poi il nero si espande, e cresce, e cresce ancora fino a quando diventa tutto buio e sembra che non ci sia più niente, poi all’improvviso nascono nuovi disegni, forme astratte, colorate e veloci che si fanno e disfanno velocemente. Nasce un universo strano e io astronauta viaggio, è come un viaggio verso la particella elementare, la particella di Dio, verso Dio. Inizia a girarmi la testa, mi gira ancora, in realtà è il mio universo che gira ma io sono con lui. A volte sembra una veloce caduta verso l’abisso altre una veloce ascesa sempre verso l’abisso.  E’ così che penso di solito. E’ così che cerco il divino,  me e Dio, non trovo nessuno dei tre, è ovvio, solo abissi di luce splendente che mi riempiono e svuotano contemporaneamente. Mi emoziono, tremo un po’, il mio stomaco si stringe e le sue pareti fanno dei movimenti strani, le sento.

Apri tonda. Mi emoziona tutto. E’ una sensazione terribile. Non è facile vivere così, non è facile avere mal di stomaco per ogni visione, per un bambino in braccio alla madre, per un signore che cammina solo, una nuvola solitaria in cielo, due persone abbracciate, una signora seduta in mezzo al marciapiede, due persone che litigano, il sorriso di chi mi saluta, la fame di un turista.  Non è facile avere sempre i brividi, sempre le farfalle nello stomaco e costantemente voglia di vomitare. Ti fanno le gastroscopie per questo, ti viene l’ulcera, prendi un sacco di medicine, ma soprattutto non riesci più a distinguere: se tutto ti emoziona chi ti emoziona? Le persone pretendono l’esclusiva. L’emozione esclusiva. La più forte. Quella vera, l’unica. Chiudi.

Mentre faccio i giri nel mio personale universo, rigenerata dalla mia lampadina e dalla mia cornea la mia mente torna al mio effettivo viaggio di oggi, alla pioggia incessante, agli incidenti che ho visto per strada, le macchine ribaltate, al mio stomaco dolorante, al mio orribile pensare- e-guidare e non guidare- e -pensare al mio pensiero confuso che si riflette sulla mia guida agitata,  le sue tragiche conseguenze; penso al volto dei venti giorni del mio nuovo nipote Martin dove c’è disegnata tutta l’Umanità, al mio sterile volto dove ci sono solo le persone che ho incrociato, penso al mio analfabetismo sentimentale, al mio fare sempre confusione, innamorarmi di tutto e non amare mai niente, essere innamorata di me stessa e non amarmi affatto. Penso a una canzone odiosa, brutta, vecchia e insipida che hanno dato oggi alla radio. All’improvviso mi fanno male le mani.  Come se mi stessero inchiodando. Il palmo  sembra squarciarsi. Penso alla persona che mi ricorda quell’orribile accozzaglia di suoni, al suo profumo impresso nella mia sciarpa grigia, penso alla sua pelle, al suo tocco, al suo volto i cui contorni non ricordo bene, penso alla sensazione di vuoto che mi pervade nel non averlo al mio fianco e ogni pensiero è come se fosse una forte martellata sul chiodo che mi inchioda alla mia profana croce. Alla mia passione.

E’ questo dolore fortissimo nelle mie mani la mia passione. E’ questa la differenza. Eccola l’esclusiva.

Mi fanno male le mani, mi fanno male le mani, mi fanno male le mani.

Ferma tutto. Un passo indietro

L’inverno mi fa un brutto effetto. Nella vita passata devo essere stata un orso polare, o qualcosa del genere, nella prossima sarò un koala o un bradipo lo sento. Voglio andare a vivere in un posto marino e che non conosca il freddo. Chissà come ci finirà il mio spirito in Australia?

Il ritorno del sole, il ritorno a temperature normali mi fa un bell’effetto non ultimo la ritrovata voglia di  stare seduta su una panchina, guardare i coriandoli per terra, farmi colpire da tutti quei colori,  dal colore dei bambini che li hanno avuti in mano, riesco addirittura a pensare ai loro sorrisi. Il senso del carnevale che disperatamente cercavo e non riuscivo a trovare ieri è lì in quei coriandoli che non sono ancora riusciti a spazzare, nei muri pieni di schiuma e di non molto originali disegni fallici. L’avrei potuto vedere ieri, avrei potuto vedere i bambini sopra i carri che cantano sempre le stesse canzoni, avrei visto le ragazzine che scappano e urlano e i ragazzini che le inseguono con bombette spray, avrei potuto vedere questo rituale di chissà quanti anni, ma avevo troppo freddo. Poco male, ho i miei tempi, sono lenta, per fortuna sono terribilmente lenta.

Tempo fa pensavo che il mondo fosse pieno di bellezza, mi ero anche cimentata su un assurdo calcolo della densità della bellezza, rho di b maiuscolo, quantità (non massa, rifiuto l’idea che la bellezza possa essere “pesante”) su volume, evito il racconto del procedimento di per sé ha poco di scientifico a parte lo spunto iniziale, era bellissimo accorgersi che le densità erano elevatissime. Come stavo bene in quel periodo, un po’ meno cosciente forse, più ingenua, più di così, più di ora (tu pensa!) ma molto più bella, era come se tutta la bellezza che vedevo fuori entrasse in me, o forse il processo era inverso. Dovrei interrogarmi su questo forse. Sarebbe bello che io lo scoprissi. A tutti i calcoli che facevo aggiungevo sempre la voce: bellezza immensa di Fatjona che cerca la Bellezza in ogni centimetro di terra. Valeva un sacco di punti. Ero una figa. Sapevo vedere e dove cercare, non trovavo mai quello di cui avevo bisogno, vagavo. Che sciocca!

Ora sono ferma.

“Sei triste”- dice mia nonna. “Sei triste”-dice mia mamma. “Sei triste”- dice mia sorella. Ho gli occhi un po’ offuscati. Peccato, mi piacciono di più i miei occhi lucenti e ridenti, mi piace il loro naturale sorriso e la luce che emanano. Tornerà tutto. Sta tornando la primavera. Tornerà il sole. Bisogna sapere vedere, avere la forza di aprire gli occhi e il coraggio di non farsi accecare, il sole può fare male ma io ho dei nuovi occhiali da sole. Chissà che non ci riesca davvero questa volta!

“La vita è un po’ come morire a rate”- dice un uomo saggio- è da quando me l’ha detto che nella mia testa torna vibrante con un periodo costante questa frase. Bene, oggi mi domandavo se la vita non fosse un vivere a rate, la vita che ti  apre le porte al suo mistero piano-piano… e se fosse davvero così che importanza avrebbe poi la morte, e il morire e le rate?

Chissà perché il mio cervello da solo alla parola attiva esistere ha sostituito il passivo resistere?
Chissà perché cercando la pur giusta concretezza ho perso completamente e cinicamente di vista tutto il resto?
Chissà perché a un certo punto ho pensato di potermi accontentare, che in fondo non meritassi il meglio, il mio meglio, che poteva andare bene così?
Chissà perché ho una memoria così corta?
E come mai ho ricevuto in dono un’immensa capacità di tagliare, distruggere e ricominciare?

 

Ricordo.
Mi perdono.
E ricomincio.

Inizia la mia laica quaresima.

 

Il lieto fine

Filippo è un mio amico ha ottantaquattro anni, ottantacinque a luglio, ma dice di averne ottantasei perché sostiene che quando si è vecchi bisogna mentire sull’età, fa figo dire di avere più anni, la gente si stupisce, spalanca gli occhi secondo l’universalmente riconosciuto segno di meraviglia si complimenta e ti guarda con fallace rispetto, ma pur sempre rispetto. Cosa si può meritare un corpo che fa fatica a camminare, che dimentica di avere fame e sete, un corpo che non risponde più agli stimoli del sistema nervoso centrale e periferico, pieno di malattie che vive solo grazie ai medicinali? Cosa si può meritare un simile corpo se non un po’ di falso rispetto?
Quindi Filippo dice di avere ottantasei anni e il mondo si stupisce che lui ancora parli, cammini da solo, vada alla coop, e che tutte le mattine si prenda il caffè con l’unico amico che gli è rimasto.

La prima volta che ho visto Filippo mi ha raccontato della sua prostata e mi ha invitato alla festa per le sue nozze d’oro. Mi ha detto che i medici lo volevano morto, che quattordici anni prima gli avevano dato solo altri due mesi di vita e invece “in culo sono ancora vivo, e domani festeggio le mie nozze d’oro con la mi moglie, la Franca. La conosci? Che vieni?”

La seconda volta che ho visto Filippo mi ha raccontato della sua prostata, dei medici, e di come Dio aveva voluto punirlo. Mi ha raccontato delle ottantasei donne che aveva avuto, che questo non doveva essere piaciuto a Dio e nemmeno a sua moglie. Ho pensato che ottantasei fosse il suo numero preferito. Mi ha raccontato di come sospettava che il cancro alla prostata glielo avesse fatto venire propria la Franca con le sue maledizioni, di come le ha chiesto scusa quando pensava di morire e di come insieme avevano pregato Dio di farlo vivere ancora un po’. Non è che mi fregasse molto di vivere un altro po’, che differenza vuoi che faccia, si aumenta le sofferenze e basta, ero già stanco,  solo che mi dispiaceva non avere mai dimostrato alla Franca i’ mi amore, perché io in fondo l’ho amata, l’ho tradita diverse volte, ma che ci posso fare mi piace il femminile, però alla fine qui con lei sono, le ho chiesto scusa le ho detto che è lei che ho amato di più. Lei si è fatta una grossa risata e mi ha detto che non gliene fregava niente di sapere chi è che ho amato di più. Ci sono rimasto un po’ male, ma l’ho capita è una donna ferita. La c’ha ragione.

La terza volta che ho visto Filippo era con un bastone in mezzo alla strada con un atteggiamento terribilmente emulatore del famoso gesto di Mosè, mi sono fermata e ho chiesto lui che cosa stesse facendo. Mi ha risposto che avrebbe tanto voluto essere un pastore, non che fare il ferroviere fosse male, ma fare il pastore doveva essere davvero divertente. Gli ho detto che sembrava Mosè, mi ha risposto che lui non avrebbe mai sacrificato suo figlio, gli ho detto che quello era Abramo, mi ha detto che è uguale. Gli ho ripetuto la mia iniziale domanda. Mi ha risposto che io come tutti avevo poca fantasia e che lui era lì in mezzo alla strada con il suo gregge, che sapeva che non c’era, e che questo non faceva nessuna differenza. Gli ho chiesto se fosse possibile spostare il gregge da un’altra parte perché dovevo andare a lavorare, mi ha risposto che era quello che stava cercando di fare ma che c’era una pecora testarda che non si voleva muovere e che lui non usava mezzi violenti contro gli animali, che addirittura da quando si era scoperto pastore era diventato vegetariano. Abbiamo aspettato insieme che la sua pecora decidesse di muoversi.

La quarta volta che ho visto Filippo era su un necrologio. C’erano scritte tutte le cose serie che la situazione prevede e poi tra parentesi le parole con cui salutava l’umanità State tranquilli non mi ha ucciso la prostata. Amate in libertà, Dio non punisce chi ama. Ho ottantasei anni non ottantaquattro.

Sii delicato, per favore.

Penso che ci sia bisogno di un po’ di grazia. Nelle parole, nei gesti, nei pensieri e nella sensibilità. A circondarmi è l’aggressività, la volgarità di pensieri e gesti. Gente che incapace di affrontare la propria sofferenza deride la manifesta delicatezza della fragilità altrui. Persone incapaci di sentire. Senza pelle, incapaci di percepire. Viscide. Persone che urlano. Che non hanno niente da dire, incapaci di ascoltare, incapaci di parlare. Così volgari nella loro essenza da tendere unicamente all’aggressività animalesca. Così incapaci di pensare una via diversa da mettere in ridicolo chiunque progetti e sperimenti un diverso modo di relazionarsi.

Ti prego, fai piano.
Con le parole, con i tuoi gesti e le meritate pugnalate.
Per favore, fai piano.
Fallo uguale se è necessario, ma ti scongiuro fallo piano.
Concedimi un po’ di delicatezza.
E non ridere di me.
Se riesci.
Altrimenti
Cerca di non farlo
Davanti a me.

Mi ferisce.

 

 

Carne cruda

Giacché la donna è spesso paragonata ai fiori sono costretta a usare tale abusata metafora. Non tutti i fiori sbocciano nello stesso periodo, alcuni lo fanno prima altri lo fanno dopo. Non tutti i fiori sono belli. Così anche le donne.  Non tutte le donne sono belle- e per le sfortunate che  belle non sono la vita non è affatto lieve- e soprattutto sono poche le donne belle a sedici anni. E’ un privilegio di poche elette. Ma prima o poi sbocciano un po’ tutte.

Mi prepari per favore due mazzi di fiori: uno più bello per la donna che voglio conquistare e l’altro un po’ meno bello per l’amica cessa. Ad ognuna il suo fiore.

Scusi se mi permetto, ma perché vuole regalare i fiori anche all’amica?

Ho letto che alle donne piace il non essere espliciti. Dovrebbe cogliere la differenza tra i suoi fiori e quelli dell’altra ma è velata,  lo capisce? E’ un gioco, è seduzione.  E’ diverso da presentarsi lì pateticamente con un unico mazzo di fiori… non conquista, lo sa? Così io rendo omaggio alla bellezza femminile e alla dama il cui cuore rapirò.

Lei è un dongiovanni signorotto, ma anche l’altra ragazza si accorgerà della differenza, non crede?

Mi chiami pure così. Veramente secondo me nessuno le ha mai regalato dei fiori, apprezzerà il gesto nuovo. Sono perfetti. Grazie mille.

Arianna è bella, ha sedici anni ed è molto bella. Non è che a sedici anni ci siano molte preoccupazioni se si è belli, infatti Arianna vive in un mondo tutto suo, forse non proprio suo, fatto di fondotinta, gloss, scarpe e simili, un mondo pieno di ragazzi che entrano e escono dalla sua vita con molta rapidità. C’è in Arianna il senso della conquista, ama fare finta di essere stata conquistata e conquistare. Ha fatto suo il gioco seduttivo, almeno per quello che si intende seduzione a sedici anni, ha dalla sua un atteggiamento innato molto grazioso, che in un mondo ove la virilità del femminile la fa da padrone colpisce e non poco. Non è mai volgare a dire il vero, né sfacciata, è molto elegante, molta velata in questo suo gioco. Gioco che le è costato caro giacché ha perso quasi tutte le amiche che aveva, ha fregato a ciascuna di loro il ragazzo almeno una volta, e si sa il femminile non perdona questi torti. Così Arianna è abbastanza sola, ha l’intelligenza per rendersene conto, nel confessionale e nel suo rapporto con Dio ammette sempre di avere un po’ sbagliato, ma che colpa ne ha Arianna se i ragazzi delle sue amiche alla fine preferiscono lei? E’ una colpa essere belle? Le sue ex-amiche la definiscono troia, non si può pomiciare nel giro di due settimane con due persone diverse, si sa. Lei accetta tutto con un atteggiamento passivo che è  molto diverso dalla rassegnazione, a volte si potrebbe dire che in realtà non le interessa proprio ciò che la circonda, e cosa ancora più terribilmente affascinante che non le interessa nemmeno quello che ha dentro di sé. La sensazione che si ha nel stare accanto ad Arianna è che lei abbia capito, abbia ricevuto la grazia di capire, che non è altro che una macchina, e questo non la turba, non è per lei una scoperta, è lei, è intrinseca. Per questo non ha reazioni forti. Non piange quando i ragazzi che molla piangono, non le fanno alcun effetto,  non si scompone alle grida delle ex-amiche che le urlano dietro, non ha affatto alcun significativo tratto umano, a parte il corpo intendo.  Penso che non abbia desideri fa il tutto per meccanica. Se dovessi definire Arianna userei proprio meccanica: Arianna meccanica, autistica a suo modo, del tutto indifferente a qualsiasi cosa.

Non ho capito niente del tuo discorso. Mi sembri un po’ confusa però… Sai cosa c’è da fare di matematica?

Ari, come faccio a non essere confusa? Mi vedi? No guardami Ari!  In certi corpi regna la bellezza. Nel tuo corpo regna la bellezza.  Non nel mio. Avrei voluto avere un corpo in cui regnasse la bellezza, mi trovo ad avere un corpo pieno di cicatrici segno del dolore che fu, e che è, di un corpo mai accettato e che ho sempre tentato di violare, non per modificarlo ma solo per fargli capire che non l’ho scelto che non mi va  bene, che io lo odio. Vorrei non un corpo diverso, so che non lo posso avere, vorrei solo avere la capacità di trovare la bellezza che c’è tra una cicatrice e l’altra. Perché c’è  bellezza tra una cicatrice e l’altra non è vero? Mi sarebbe  d’aiuto se qualcuno  trovasse gradevole il modo in cui mi manifesto come presenza fisica, ma temo  che ci dovrò arrivare da sola. Nella mia mente tutto è confuso Ari, io so che il mio problema è il mio corpo. Faccio fatica persino a camminare, a trascinare queste enormi cosce che mi ritrovo, come faccio a non avere confusione in me? Vedo il tuo corpo snello passarmi accanto, essere osservato da tutti, essere apprezzato, essere ammirato, essere amato, sorridente e pimpante  mentre io fondamentalmente cammino sola cercando di non guardare la mia ombra, mmirando anche io il tuo corpo e la bellezza che non mi è concessa.  Come fai a non essere confuso se sei così? Prova a metterti nei miei panni, come fa a non venirti voglia di farti del male con le lamette, con gli stuzzicadenti che strusci forte sulla pelle, con le bottiglie che vuoi svuotare, e con il cibo che continui a mangiare?

Ma non dire sciocchezze anche io devo dimagrire un po’ ma non ne faccio mica una tragedia. Ma gli esercizi vanno fatti tutti?

Il patetico dialogo  è ovviamente tra Arianna e l’amica cessa. Mentre per definire Arianna abbiamo dovuto usare “meccanica” per l’amica cessa non c’è alcuna necessità di dare ulteriori definizioni. E’ contenuta miseramente in tale definizione, cessa intendo, e poi dal suo monologo abbiamo capito il necessario. Le due elemosinavano a vicenda l’una all’altra la propria compagnia – cos’è poi l’amicizia se non questo?- Arianna perché ormai era stata abbandonata da tutte le altre, e l’amica cessa perché solo Arianna se la filava. Che tragedia avere sedici anni, è tutto così chiaro a sedici anni, e loro sapevano benissimo che cosa volevano l’una dall’altra, volevano la stessa cosa, era un subdolo patto non detto, non scritto, mai confessato, ma di cui erano perfettamente a conoscenza: si usavano l’un l’altra, usavano il loro rispettivo corpo per starsi accanto,  nel loro rapporto non c’era nient’altro che due corpi seduti nella stessa camera. E’ terribile elemosinare amore, ma quanto è terribile elemosinare compagnia?

Il dongiovanni di cui si parlava sopra invece è un  personaggio alquanto ermetico, che ha voluto ben nascondersi dal mio sguardo indiscreto, quindi di lui non so dire molto, e in realtà non mi interessa affatto. So solo che ha cercato di conquistare Arianna, con i suoi fiori, il suo corteggiamento, ha provato a starle vicino, poi ha dovuto farsi amica l’amica cessa. E’ successo che lei se ne sia innamorata e anche il baldo giovane piano piano ha scoperto che la compagnia dell’amica cessa gli era necessaria, e che in fondo di Arianna gli importava il giusto. Ci sono cose più importanti dell’aspetto fisico, c’è la comprensione, il dolore che si riesce a condividere, e di dolore l’adolescenza è piena, diciamo che si può condividere molto e per molto tempo. Arianna non fu felice di questo legame eppure il dongiovanni non le interessava affatto, ma si sa come funzionano queste cose, si convinse di amarlo. Lo conquistò perché ci sono cose più importanti della comprensione e del dolore che si riesce a condividere. E’ facile intuire quale fu il dramma provato dall’amica cessa, ma non si rese capace di nessun moto di orgoglio o più semplicemente di dignità, subì quel oltraggio e per paura di finire con solo il suo enorme corpo in mezzo a una stanza accettò di stare accanto ai corpi avvinghiati di Arianna e del dongiovanni, vide frantumarsi il suo cuore, ingrassò ancora di più, aumentarono le cicatrici sul suo corpo, e non sbocciò, non sbocciò affatto.

 

Lievi, ree, perpetue vigliaccherie.

–          Lo finisci tu, per favore?

–          Uffa, ma perché fai così?

–          Così come?

–        Iniziare a mangiare le cose poi lasciarmele sempre a me… penso che il mio aumento di peso sia dovuto a queste   tue strategie.

–          Ma non sono strategie. E’ che il cibo dopo un po’ mi annoia.

–          Il cibo non può annoiare. Smettila di dire idiozie.

–          Come no? Già al secondo boccone mi annoio, figurati finire un piatto intero.

–          Le tue stravaganze…. Va beh basta che non mi imponga di mangiare anche il tuo piatto di pasta. Oggi proprio non ce la faccio.

–          E’ che non si butta via il cibo, non sta bene, a me dispiace. Lo sai.

–          Certo, certo sono una specie di pattumiera allora?

–          Sì, ma sei carina come pattumiera.

–          Grazie… e io intanto mi gonfio.

–       Meglio. In realtà sto cercando di farti diventare obeso così smetti di essere un desiderabile oggetto sessuale e rimani mio per sempre. Le relazioni hanno bisogno di sicurezza. Mio. Mio. Mio.

–          Sono tuo?

–          Certo che lo sei.

–          Non lo sapevo. Mi fa piacere. E chi l’ha detto?

–          Io.

–          Mi vuoi tuo per sempre?

–          Sì, vorrei che tu mi aiutassi sempre.

–          In cosa ti aiuto?

–          Finisci il mio piatto.

–          Sei la solita egoista.

–          Scusa se il mio mondo gira intorno a me. Il tuo intorno a chi gira?

–          Intorno a me e te.

–          Non è vero.

–          E’ vero.

–          Dimostramelo.

–          Finisco il tuo piatto.

–          Questo non lo fai per me e te.

–          Sì che lo faccio per me e te. Lo faccio per il nostro equilibrio.

–           Lo fai perché sei un mangione.

–          No.

–          Sì.

–          No. Finirò il tuo piatto e lo farò per me e te, è la mia dimostrazione d’amore quotidiana. Non so quanto saranno piacevoli per te le dimostrazioni d’amore che mi dovrai dare tra qualche chilo.

–          Non me ne importa niente della tua pancia.

–          Di cos t’importa?

–          Che tu mi ami.

–          Sei dolce.

–          …

–          …

–          …

–          …

–          Tu te lo ricordi perché stiamo insieme?

–          Non devo ricordarmelo, so perché stiamo insieme.  Tu non lo sai?

–          Non me lo ricordo più.

–          Tu sei qui con me ora… e non sai perché?

–          No.

–          Ah! Ci risiamo… Fantastico!

–          Tu perché sei qui con me?

–          Perché fino a qualche minuto fa non c’era un posto diverso e una persona diversa con cui volessi stare, ma poi tu te ne esci fuori con queste storie qui e allora mi sa che forse c’è qualcosa che non funziona.

–          Ho letto una cosa oggi. L’ha scritta Bukowski. Te la leggo?

–          Non me ne frega niente di Bukowski. Voglio che tu mi dia una spiegazione una volta per tutte del perché te ne esci con queste storie assurde. Stiamo insieme da un anno e mezzo ormai e quando uno pensa di avere una qualche pseudo certezza, e magari inizia a progettare un futuro, a sognare di finire sempre il tuo cazzo di piatto, tu tiri fuori  discorsi del genere.

–          ‎”L’amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo. Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri.”

–          E allora?

–       Ecco io ho pensato che in fondo mi facesse comodo che tu mi finissi il piatto, e che tu mi ascoltassi e che tu mi capissi e mi facessi sentire meno sola, che tu fossi per me un punto di riferimento, che venissi a trovarmi a lavoro, che uscissi con i miei amici e che tu ci fossi nella mia vita. Poi però ho pensato che in realtà non so se tu mi capisci. Ma alla fine che importanza ha se mi capisci o meno? L’importante è stare bene insieme, giusto? Perché mi devi capire? Poi che vuol dire capire? Non lo so. Sono confusa. Non so se ti amo. Come faccio a sapere se ti amo? Come faccio a capire che non è solo un’esigenza? Che non è l’abitudine? Cos’è poi l’amore? Io non lo so, io ti guardo e sono serena, sono tranquilla, mi fai stare bene. Ma è questo poi l’amore? A volte mi sembra un po’ una cosa da vecchi, come se noi ci facessimo compagnia. Litighiamo per sciocchezze, parliamo della mia famiglia, la tua famiglia, i nostri amici, tu mi racconti com’è andata la giornata, io ti dico cosa ho fatto, tu mi parli del tuo lavoro, io ti parlo delle cose che ho scoperto, leggiamo il giornale infamiamo i politici, andiamo a cena, andiamo a feste odiose, io mi ubriaco, facciamo l’amore… tutto sempre uguale senza un motivo ormai. C’è un motivo? Lo vedi tu il motivo? Non è così che immaginavo l’amore. La pensavo una cosa improvvisa, qualcosa che mi squarciasse, lacerasse, che mi aprisse a me, che mi facesse capire chi sono, qualcosa che mi spostasse il centro di massa, un fenomeno elettromagnetico che scombussolasse tutto, tutti gli equilibri, che mi cambiasse, che mi facesse crescere, e invece sono ferma. Sono ferma. Sono ferma. Sono ferma. Non è cambiato niente rispetto a un anno fa. Tutto uguale, ho dovuto modificare solo un po’ di orari. Sono un po’ confusa.

–          Io ti capisco. Io ti conosco. Tu stai delirando. Ora non sai cosa fare, ti stai annoiando, probabilmente non ti piace questo posto, oppure vuoi ferirmi in qualche modo per qualcosa che ho detto secoli fa,  e  così te ne esci con discorsi del genere, così per dare alla tua giornata un po’ di patetico movimento. E’ questo che vuoi tu? Ti annoio? Mi stai dicendo che ti annoio?

–          Non ho detto che tu mi annoi.

–        Sì che l’hai detto, ma a te annoia tutto. Noi facciamo le cose che fanno tutti. Okay? Cosa vuoi fare? Hai bisogno di un  viaggio vuoi che andiamo da qualche parte? Non ti basta la nostra quotidianità? Non è abitudine la nostra, è quotidianità, è questo che fanno le persone, è così che si amano. Tutti i giorni. Non un giorno sì  e l’altro no.  Cosa vuoi fare di straordinario poi? Proponi! La facciamo.

–          Ma io non voglio fare niente. Cioè ragionavo un po’ così… sono stanca…

–          Cosa c’è? C’è qualcun altro?

–          No. Perché devi sempre pensare che ci sia qualcun altro?

–          Perché ciò che dici non ha senso. Noi stiamo bene. Siamo felici insieme. Perché devi rovinare tutto così per nulla poi? Tiri sempre fuori questo discorso, che poi finisce nel nulla sempre. Che senso ha?

–          Scusa. Scusa. Scusa. Scusami davvero.

–          Cosa vuoi? Puoi dirmi cosa vuoi? Ti prego! Non ti capisco.

–          Ma non voglio niente. Ragionavo un po’ ad alta voce dai.

–          Devo sapere se mi ami perché io ti amo da morire, ti amo davvero e se tu non mi ami, o non sei sicura di amarmi io devo saperlo. Mi ferisce, ci soffro, ma devo saperlo.

–          Ti prometto che non leggerò più Bukowski.

–          E’ Bukowski il problema?

–          Mi sa di sì.

–          Tu non sei sana. Lo sai?

–          Lo so.

–          Mi hai fatto arrabbiare.

–          Scusa. E’ che sono un po’ sottopressione, un sacco di pensieri, un sacco di cose da fare.

–          Okay. Okay.

–          …

–          …

–          Mi ami?

–          Non lo so.

–          Non ha senso nulla se tu non mi ami.

–          No.

–          Perché non ti sforzi di amarmi? Io ti amo così tanto.

–          Ti amerò.

Inquinamenti acustici

Parlo piano. Nella mia testa c’è tanto rumore, frenesia, caos. Tutto si muove invano, almeno che lo scopo non sia quello di causarmi laceranti mal di testa. Non sopporto tutto questo. Vorrei silenzio o musica. Vorrei ordine. Armonia. Fuori dalla mia testa è ancora peggio. Tutto si muove, tutto ha uno scopo, tutti hanno un posto dove andare, tutti parlano, fanno rumore. In questa loro confusione ci sono dei perché ed è ancora più terribile. Non possono fare quello che devono fare piano?

Io parlo poco perché non riesco a organizzare i miei pensieri e soprattutto perché non ho niente da dire. Non ascolto nemmeno molto, cerco di isolarmi acusticamente, vorrei essere sordo, vorrei non avere questi mal di testa, vorrei pace. Silenzio. Mi muovo anche lentamente perché non ho fretta e perché voglio osservare tutto. Fisso spesso il vuoto, soprattutto quando sono con altre persone, non so perché lo faccio credo che mi aiuti, fa spaventare la gente, gli fa andare via e mi fa rimanere solo.

Un tempo c’era lei, non mi ricordo il suo nome. Non mi ricordo nemmeno come ci siamo incontrati, né lo sguardo che non ci siamo scambiati. Non ricordo come lei ha iniziato a parlarmi né perché ha voluto starmi accanto. Amavo pensare che mi avesse scelto, non importava per quale motivo, era la sua scelta che mi affascinava. Lei era sicura o forse terribilmente sola, di quella solitudine che le donne non riescono a sopportare, una solitudine che io non ho mai capito, ma che l’ha portata misericordiosamente tra le mie indegne braccia. Lei riusciva a tirarmi fuori le parole di bocca, parlava al posto mio, non penso che mi ascoltasse, riempiva con il suo flusso continuo di parole senza senso i terribili abissi dei miei silenzi. Parlava come tutti gli altri, non mi ascoltava come tutti gli altri, ma era armonia, era suono dolce, era come se le sue parole mi cullassero, era silenzio. Era ordine. Era lei, c’era, era accanto a me e mi imponeva il suo strano silenzio rumoroso.

Ma i giochi durano poco, stancano presto e se n’è andata. Mi ha lasciato come l’attore che abbandona il suo pubblico al palcoscenico vuoto.

L’ultima volta in cui l’ho vista era bellissima. Aveva un vestito di un colore che non ricordo, i capelli acconciati in maniera strana, delle scarpe che le davano un’insolita instabilità. Il suo volto era diverso, pieno di colori. Era bella come mai, come nessuna. Mi ha portata al teatro. Mi ha fatto sedere in platea, continuava come sempre a parlare. Eravamo soli. Il teatro era buio. C’era solo una luce che illuminava il palcoscenico. Si diresse verso quella luce con la sua nuova camminata e il vestito che la ostacolava. Smise di parlare e partì una dolce musica, iniziò a muoversi con grazia, facendo una strana danza che mi rapì.

Poi di colpo la musica finì. Lei se ne andò. Mi lasciò lì a guardare l’inutile luce, ad aspettare che lo spettacolo rincominciasse di nuovo.

Crudele quel silenzio e quella vana attesa, ma sono ancora lì.

 

Mai abbastanza

C’è un intruso nel mio letto. Mi sfiora, mi accarezza, mi bacia. So chi è. Lo conosco. L’ho voluto.  E’ un intruso.

Si alza e rimaniamo io e l’orma del suo corpo. Non è più suo. E’ già tuo.

Non mi ricordo la forma del tuo corpo, non ti ho toccato abbastanza. Ti accarezzo ora. Lui mi vede e si compiace. Non c’è. Ci siamo tu ed io.

Sento il suo odore. Non mi ricordo il tuo profumo. Io non ti ho sentito abbastanza. Respiro le lenzuola.Lui si compiace.

 

Io ti cerco.

 

Lui sorride. Mi bacia. Non mi ricordo i tuoi baci. Io non ti ho baciato abbastanza.

Ti bacio. Ti stringo. Sento il peso della tua assenza che mi schiaccia. Mi schiaccia. Ancora.

 

Ti cerco.

 

Ti stringo più forte. Ti bacio di nuovo. Io non ti ho mai abbracciato abbastanza. Non ti ho mai baciato abbastanza. Io non conosco più il tuo sapore. Io non ti ricordo.

Inalo con voluttà un corpo non tuo.

Lavo le mie lenzuola milioni di volte. Per lavare via il tuo odore, la tua orma, il tuo ricordo. Ti ho dimenticato. Giuro che ti ho dimenticato. Ho dimenticato le tue parole, i tuoi baci, le tue carezze, ho dimenticato anche il tuo volto, le tue promesse, la tua barba.

Ma non riesco a dimenticare la tua assenza, il mio letto tutto sommato vuoto, i baci meccanici, gli abbracci sterili.

 

Ci sono amori puri

E’ anche San Valentino oggi. Allora svesto per qualche secondi i panni della vecchia zitella acida a cui “San Valentino” non interessa e scrivo del mio amore. Forse unico. Forse no. Io mi innamoro con facilità. Anche di Bondi. Questo post lo voglio dedicare all’uomo che ho sempre amato. All’uomo che con i suoi movimenti ha colpito e affondato il mio tenero cuore. All’uomo a cui sognavo di stare accanto. All’uomo il cui doppio passo mi faceva saltellare il cuore. All’uomo che mi ha fatto piangere più di qualsiasi altro uomo, incluso mio padre, soprattutto il cinque maggio  duemiladue. All’uomo che mi ha fatto venire la voglia di mettermi in gioco. Di potere sognare anche io. All’uomo che un po’ ha cambiato la mia vita. All’uomo che ha tradito la mia fiducia e spezzato il mio cuore abbandonando i miei colori.

Oggi appende le scarpe al chiodo, visto come si è ridotto ultimamente non è che sia proprio un peccato ( è un periodo difficile per i nati il 22 settembre) e io non me la sento di non celebrarlo in questo mio spazio virtuale perché il Ronaldo dei tempi d’oro un po’ mi manca.

 

 

 

Non mi piace il tuo amore.

A me non piacciono le tue camicie stirate.
Non mi piacciono nemmeno le tue giacche.
E le tue scarpe lustrate.
La tua macchina pulita.
Non mi piace il tuo profumo invadente.
E nemmeno il tuo volto da pubblicità.
Non mi piace la tua barba così morbida.
Non mi piacciono le tue mani curate.
Il tuo sorriso.
E le tue braccia possenti.
Non mi piacciono le tue premure.
I tuoi tentativi di compiacermi.
Le tue attenzioni.
Le  strategie che usi.
I tuoi messaggi prevedibili.
I tuoi discorsi seri.
Il tuo parlarmi di musica, politica, arte.
Non mi piacciono le cose che fai.
I fiori.
I regali.
I baci delicati.
Gli abbracci misurati.

Non mi piace il tuo presunto amore.
Non mi piace vederlo germogliare.
Così scontato.
Così banale.
Vuoto.

Come tutti gli altri.

Potresti piacermi Tu.
Ma non ti vedo.

Questioni genetiche.

Certe cose non si scelgono.
Si subiscono e basta.

La Natura sa essere crudele, lo è anche il fato, e persino il caso. Capita di mettere alla luce un bambino proprio nel momento in cui i pianeti sono allineati in modo tale da marchiarlo con l’infelicità garantita per tutta la sua esistenza. Capita di trasferire lui la parte del proprio genoma meno efficace ad affrontare la selezione naturale. E capita di fargli vivere esperienze che confermeranno il suo non essere stato eletto. L’essere la specie che perderà, quella che si estinguerà, che vivrà all’ombra, che subirà. La selezione naturale.

Vedi tuo figlio crescere e ti rendi conto che ha una marcia in più rispetto alla media, nello sport, nella scuola, nella relazioni, lo vedi essere diverso, e te ne compiaci, in cuor tuo speri di avere trasferito la parte migliore dei tuoi geni, pardon, la parte più utile dei tuoi geni, speri che possa affrontare la vita con spavalderia e che riesca a essere felice. Poi tuo figlio cresce e vede cose che non dovrebbe vedere, tu te ne disperi, avresti voluto proteggerlo, non ci sei riuscito, ma lo vedi reagire bene tutto sommato, non dà segni di particolare sofferenza, e così la speranza di avere trasferito la parte di te più utile a sopravvivere ti pervade ancora. Poi cresce ancora e con lui un certo filo di tristezza, inquietudine, e malinconia, tu lo vedi e la speranza si fa sempre più flebile, vorresti prendere parte a quel mare di solitudine e angoscia, ma non ti fa entrare, e allora guardi, guardi da lontano.

Sai che potrebbe fare tutto, tutto ciò che vuole,  potrebbe diventare qualsiasi cosa, potrebbe essere persino felice, se solo lo volesse, se solo lo scegliesse, ma sai che non lo sceglierà, che non lo vorrà, che non la potrà scegliere; lo vedi affogare nei sui dubbi e tremare dalla paura, riconosci in lui una mediocrità diversa dalla media, una mediocrità più alta, quella che fa più male, quella che ti fa vedere che esiste qualcosa di alto e altro, ma che non ti ci fa arrivare, ti lascia lì a guardarla, ammirarla e sognarla. Lo vedi, ne rabbrividisci, e un giorno seduti a cena dici a tuo figlio: “Mi dispiace, mi dispiace davvero. Avresti dovuto essere più nella media. Non così. Nella media, dovevi essere nella media.”