Direzioni diverse

Ci penso ogni tanto che l’avere un blog è come una specie di memoria da lasciare ai posteri. Mi immagino i miei figli, o chi avrà l’ardire di amarmi, a curiosare tra le cose che scrivo. Mi diverte.  Sento un senso di leggerezza e una controllata, ma abbastanza grande voglia di dare, e mi rassereno.

In quest’ottica, dunque, pubblicherò una canzone che per me in questi giorni è diciamo così significativa.

Inizio a odiare i proverbi

Okay. Racconterò i fattacci miei. Lo faccio perché ne ho voglia, e soprattutto perché lo necessito più dell’aria che a fatica oggi riesco a respirare.  Riuscirò a perdonarmi prima o poi.

Me lo diceva il babbo quando alle prime illusioni, con consequenziali  disillusioni, mi trovavo ad affrontare lo spigoloso tema dei rapporti umani “chi trova un amico trova un tesoro”. Okay. Lo so che non è un’espressione sulla quale il mio babbo ha i diritti d’autore, ma il mio babbo è il mio babbo.  Me lo concederete, ora ho il momento sentimentalismo a gogò. Sarà un fatto ormonale.

Riassumerò in breve i fatti. Sento d’avere il dono della sintesi. Oggi.
E’ partito il mio amico. Intendo amico.
Amico.
E’ partito. Se n’è andato. Ha preso l’aereo e se n’è andato.
Non per sempre.

Tornerà. Prima o poi.

Lascia un po’ di strano vuoto.
La strana sensazione d’avere perso un tesoro.
E una canzone che da due giorni riempe i silenzi di camera mia.

Bleah. Mi faccio abbastanza pena. Pietà di me, quando ti rileggerai tra qualche giorno oh me medesima stessa!!!

Horror vacui

Non parlava.
In silenzio.
Ascoltava il suono delle parole.
Non parlava.
Non ne aveva modo.
Non ne aveva voglia.
Cosa dire.
Non parlava.
No.
Non ce n’era bisogno.
Niente da dire.
Niente di nuovo.
Ascoltava le altrui parole.
Adorava il suo silenzio.

All’amato me stesso

Quattro. Pesanti come un colpo.
“A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.
Ma uno come me dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S’io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l’alta marea,
accarezzando la luna.
Dove trovare un’amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

O s’io fossi povero come un miliardario..
Che cos’è il denaro per l’anima?
Un ladro insaziabile s’annida in essa:
all’orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l’oro di tutte le Californie!

S’io fossi balbuziente come Dante o Petrarca…
Accendere l’anima per una sola, ordinarle coi versi…
Struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

O s’io fossi silenzioso, umil tuono… Gemerei stringendo
con un brivido l’intrepido eremo della terra…
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.

Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s’io fossi appannato come il sole…

Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra?

Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?

Da quali Golia fui concepito
così grande,
e così inutile?

Lamento dell’ebbro

A volte una sigaretta non basta.

Tu vuoi che io rida. Vuoi una conferma della tua malsana idea della bellezza della vita. Ma io non rido. Non sorrido nemmeno più. Non c’è motivo. Ovunque volgo lo sguardo vedo orrore, non più sofferenza. E tu pretendi che io rida. Tu pensi che il tuo riso sia una cazzo di visione positiva della vita, ma esso non è altro che vuoto e nulla. Ecco perché ridi perché non vuoi vedere. Come fai a ridere se non capisci il mio bisogno di morfina? Come fai? Il tuo riso è una maschera per sentirti più sicuro, e allora tieniti la tua allegria e il tuo dolce sorriso, ché io me ne vado a braccetto con il mio giovane pianto soffocato, percosso e umiliato.

Ci ameremo come i cani

Mettiamo subito in chiaro le cose. Chiara è bella. Chiara piace. Questo per quanto ci concerne è l’unica informazione necessaria.

“Oh, allora si va stasera?”
“Sì, sì. Dammi un’oretta per prepararmi. Sono in delle condizioni… ”
“ Sarai bellissima come sempre, allora ti aspetto sotto casa alle nove…”
“Ok, va benissimo. Ciao a dopo.”
“A dopo”

Iniziò a prepararsi. Era per lei una specie di rito, quasi religioso. C’erano dei tempi da seguire. Il tutto doveva essere fatto con somma attenzione ad ogni singolo dettaglio. Non usciva mai di casa senza avere eseguito con cura tutti gli step del make-up. Andava molto fiera del fatto che aveva una sua particolare tecnica. Non  l’aveva imparata da nessuno, era una sua creazione. Visti i risultati, facilmente misurabili nel numero di ragazzi che le avevano chiesto di uscire anche soltanto negli ultimi due mesi, direi che ne aveva  ben donde di esserne fiera.  Finalmente aveva finito. Era pronta.
Durata: quarantacinque minuti. Tutto nella norma.
Si guardò allo specchio. Si osservò con attenzione. Era tutto perfettamente al suo posto. Si piacque molto nel vedersi. Certo c’era quel piccolo dettaglio del suo naso, ma pensò tutti hanno il complesso del naso. Si rassicurò di questa osservazione e si sdraiò sul letto facendo particolare attenzione a non sciupare l’acconciatura.
Poi iniziò a rivolgere i suoi pensieri verso colui che l’aveva invitata poco prima. Era carino, sì insomma c’è di meglio, ma comunque andava bene. Alla sua amica Laura piaceva moltissimo Andrea, e infatti, Chiara aveva avuto un po’ di perplessità nell’accettare il suo invito, poi aveva pensato che, insomma, altrimenti il sabato sera sarebbe dovuta uscire con i suoi soliti amici a “farsi due palle così”, e aveva già dimenticato l’esistenza di Laura. Ora però le tornava in mente prepotentemente, come una specie di senso di colpa, ma lo squillo sul cellulare fece andare via ogni dubbio e perplessità. Era Andrea. Salutò a casa. Le chiesero con chi sarebbe uscita. Rispose sinceramente. Alle perplessità della madre sulla fine della sua relazione con Marco rispose con un breve ma significativo “non ha funzionato” e se ne andò.
Lui la aspettava. Aveva una macchina nera. Pensò che fosse bellina. Più un punto per Andrea. Lo salutò dandogli un bacio sulla guancia, facendo molto attenzione al lucidalabbra, e partirono.
Camicia nera. Più un altro punto. Jeans strappato. Meno un punto. Scarpe uguali a quelle del Manto. Più quattro punti. Andrea le parlava dicendole qualcosa, lei lo ascoltava. Ogni tanto rispondeva alle considerazioni del suo autista di una notte. E così, abbastanza per pietà, rideva di quelle che egli voleva spacciare come battute. Insomma la portò in un pub spacciandolo come quello più bello della città. Lei annuì.  Si baciarono. Lui la riportò a casa. Pomiciarono sotto casa e fine della serata.

Si precipitò nel bagno per osservare con attenzione il suo viso. Accidenti! Il trucco era colato un pochino. L’effetto pomiciata s’era fatto sentire sul suo lucidalabbra. Forse era meglio cambiare marca. Ma sempre una gran figa rimaneva. Si struccò lentamente, eseguendo ogni passaggio e si infilò nel letto. Guardò l’orologio era solo l’una. Pensò di chiamare Laura per farle il resoconto della serata, ma si disse che era tardi e allora si mise a scrivere sul suo diario. Scrisse:
“ Oggi sono uscita con Andrea quello della quinta bi. E’ carino. A Laura piace moltissimo, ma lui ha scelto di uscire con me. Devo essere sincera e dire che mi è dispiaciuto tantissimo e che io ho fatto il possibile affinché lui si accorgesse di Laura, ma insomma che ci posso fare se ha scelto me. Non posso certo precludermi la possibilità di uscire con una persona solo perché a Laura piace esteticamente. Poi Laura diciamoci la verità è carina, ma non ha nessuna chance con uno come Andrea.
Ci sono andata. Lui bacia bene, e io sono contenta. Potrebbe essere lui l’uomo della mia vita?”
Concluso il discorso tentò di addormentarsi, ma non aveva sonno, allora si mise a leggere il libro che le avevano assegnato a scuola.
“Due palle sto libro”- sentenziò.
“È comunque certo che nulla al mondo rende l’uomo tanto necessario quanto l’amore” diceva  Werther. Pensò ad Andrea, Marco, il Manto, il Bellu, il Pumba, Andrea della quinta ci e si sentì necessaria.

Ungimi

Sono morta. Da un pezzo. Tutti se ne sono accorti, al mio funerale partecipano in diversi. Tutti i giorni. In tanti seguono in diretta la mia tortura. Alcuni se ne accorgono, molti no. Diversi amano la mia lenta decomposizione. Nessuno piange. Nemmeno io piango.  Non posso piangere,  sono morta.  Mi servirebbe piangere mi ricorderebbe me. Avrei tanto voluto potere scegliere e invece la scelta mi ha ucciso. L’ho vissuta ogni singolo istante della mia vita. Ne ho capito l’importanza.  Ho sempre visto il bivio ovunque. Mi ha ossessionato. Non ho mai saputo che direzione prendere, e le ho prese tutte.  Ho vissuto in funzione sua e ora la scelta ha vinto. Ora non devo più scegliere. La penultima scelta è stata quella di morire. L’ultima  fare passare questa lenta agonia, questo viaggio verso il nulla come un qualcosa di positivo, una conquista di cui andare fieri, spacciarla come una piacevole novità. Ho scelto il male. Il mio male. L’ho fatto consapevolmente. L’ho voluto, fino alla morte. Ho chiesto a un untore di ungermi. E ho amato la mia morte. Ora mi faccio decomporre dai  parassiti e mi trasformo lentamente  in parassita anche io.